Con la sentenza n. 4628 del 06/03/2015, emessa a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha preso posizione rispetto ad una problematica, l’ammissibilità del contratto preliminare di preliminare, molto dibattuta soprattutto in dottrina e che nelle precedenti pronunce della Suprema Corte aveva ricevuto una differente soluzione.
Prima di entrare nel merito della questione è bene precisare che l’oggetto della pronuncia è stato espressamente circoscritto allo specifico caso di trattative condotte nell’ambito della compravendita immobiliare promossa da agenzie di intermediazione. Trattative che, come viene espressamente precisato, seppur con un potenzialmente infinito numero di variabili, si articolano sostanzialmente in tre fasi distinte: “Una prima fase in cui, a volte con la formula, almeno dichiarata, della proposta irrevocabile, l’aspirante acquirente offre un certo corrispettivo per l’acquisto del bene, atto che viene riscontrato dalla accettazione o dal rifiuto del proprietario. Una seconda, espressamente prevista, di stipula del contratto preliminare propriamente detto. La terza, costituita dall’indispensabile rogito notarile con il saldo del prezzo”. In questo contesto, il preliminare di preliminare consisterebbe in una frammentazione ulteriore delle fasi necessarie per giungere alla sottoscrizione dell’atto traslativo in maniera che le parti, pur non obbligandosi alla stipula di un contratto preliminare propriamente detto, possano comunque “dare un vincolo giuridico all’operazione economica condivisa negli elementi essenziali”. Si tratterebbe in altre parole di una figura vincolante per le parti non suscettibile di esecuzione forzata ex art. 2932 c.c., intermedia tra delle semplici puntuazioni (ovvero la mera indicazione di elementi sui quali si è raggiunta un’intesa da non discutere nuovamente nel prosieguo delle trattative) ed il preliminare propriamente detto. Nonostante il ristretto ambito esaminato, la portata della pronuncia è potenzialmente molto più ampia e farà probabilmente sentire i suoi effetti su un’area più vasta, ovvero quella dell’ammissibilità del preliminare di contratto ad effetti obbligatori, figura sulla quale, soprattutto in dottrina, spesso si è dibattuto. Si può subito dire che nella sentenza in esame la Suprema Corte, muovendo da un esteso esame della casistica concreta ed analizzando i paradigmi comportamentali dei soggetti coinvolti, ha individuato quello che normalmente è il contenuto della volontà delle parti, dando ad esse una configurazione giuridica netta e specifica, discostandosi così da precedenti pronunce emesse a sezioni semplici, in particolare dalla n. 8038 del 2/4/2009.
Prima di scendere nel particolare, va intanto evidenziata la particolarità di questo procedimento deduttivo che muovendo dall’analisi del caso concreto, cerca di assegnarvi la giusta collocazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico e che per il Giudice di legittimità può anche apparire in qualche modo ‘invertito’ rispetto alla più consueta partenza dall’analisi delle norme di diritto.
Se la dottrina si è divisa circa l’ammissibilità del preliminare di preliminare, la giurisprudenza è apparsa negli anni piuttosto uniforme nel negarne la possibilità, salvo l’orientamento dei giudici partenopei che in più occasioni si sono pronunciati a favore di una valorizzazione dell’autonomia negoziale che consentisse la stipula di tale contratto. Le SS.UU. argomentano in ampia parte la decisione ripercorrendo le argomentazioni della Sezione II, che nella sentenza n. 8038 del 02/04/2009 avevano escluso l’ammissibilità di questa figura contrattuale sulla scorta della considerazione che “obbligarsi … ad obbligarsi, darebbe luogo a una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ben potendo l’impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anzichè prometterlo subito”. Sulla scorta di tale assunto, quella sentenza giungeva alla conclusione, condivisa dalla dottrina più autorevole, che le parti nel momento in cui decidono di impegnarsi all’acquisto di un bene immobile attraverso la stipula di un contratto preliminare, o hanno definito l’acquisto in tutti i suoi elementi e, quindi, il successivo passo sarà un contratto definitivo con effetti traslativi, oppure, mancando un qualche elemento comunque decisivo ai fini della formazione e completezza della loro volontà, ci si trova davanti non già ad un accordo di natura contrattuale, ma a semplici ‘puntuazioni’ di rilevanza puramente precontrattuale. Era questa l’unica alternativa prima della pronuncia in esame, poiché, come visto, in base al precedente orientamento, qualora le parti, pur d’accordo su tutti gli elementi (il c.d. ‘in idem placitum’), avessero contrattualmente convenuto di stipulare un contratto preliminare, quest’ultimo avrebbe rappresentato un’inutile duplicazione del primo, il quale sarebbe nullo carenza di ‘causa in concreto’, quindi, privo di interesse meritevole di tutela legale (cfr. art. 1322 comma 2 c.c.).
Rispetto a tale ipotesi, la sentenza in esame non prende le distanze e ne condivide appieno la conclusione, pur se viene precisato che l’accordo da ritenere nullo dovrebbe essere più propriamente il secondo in ordine cronologico e non il primo.
L’innovazione è rappresentata invece dalla soluzione data all’altra ipotesi, ovvero quella dell’accordo volto alla stipula di un contratto preliminare del quale non sono ancora definiti tutti gli elementi, prima qualificato come semplice accordo prenegoziale non produttivo di vincoli contrattuali. Le SS.UU., valorizzando al massimo l’autonomia contrattuale delle parti, ribaltano tale la conclusione individuando uno “scopo pratico del negozio…sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato”. Per arrivare a tale risultato, viene introdotto un elemento ulteriore nell’ambito del rapporto negoziale e l’area lasciata vuota dagli elementi ancora non definiti e considerata in precedenza ostativa alla nascita di un vero e proprio contratto, è ‘riempita’ da quello che più volte viene chiamato ‘obbligo a contrattare’ a cui le parti si sono volute espressamente vincolare. E’ in ciò che si sostanzia la maggiore innovazione dell’orientamento della Suprema Corte, di cui posso qui evidenziarsi la portata e gli effetti.
In primo luogo deve osservarsi che l’introduzione di un tale obbligo contrattuale in realtà determina uno ‘spostamento’ dell’oggetto dell’obbligazione rispetto all’obiettivo iniziale dei contraenti, in quanto il vincolo che ne deriva si allontana dalla compravendita immobiliare che è al centro della volontà delle parti e che viene in qualche modo deviato dall’ introduzione di obbligo di natura diversa consistente un facere, ovvero di continuare le trattative per giungere al vero e proprio contratto preliminare di compravendita.
Inoltre, seguendo tale impostazione diventa difficile distinguere, sotto un profilo meramente contenutistico, la responsabilità precontrattuale da quella contrattuale ed anche se ne rimarrà evidentemente distinta la fonte, vi è da chiedersi comunque se vi saranno in effetti delle differenze nella pratica applicazione. Ad alimentare tali interrogativi, d’altra parte, vi è lo stesso criterio che secondo le SS.UU. dovrà essere utilizzato per verificare l’inadempimento dell’obbligo a contrattare, ovvero quello della violazione della buona fede. Tale criterio coincide esattamente con il contenuto dell’art. 1337 c.c. che per la responsabilità precontrattuale fa riferimento proprio al comportamento contrario alla stessa buona fede. Al contrario, è sostanzialmente pacifico, in giurisprudenza come in dottrina, che la responsabilità contrattuale poggia su elementi oggettivi e non su dati psicologici o soggettivi.
E’ evidente lo scopo perseguito dalle SS.UU. con la decisione in esame, peraltro espressamente dichiarato, di valorizzare al massimo l’autonomia contrattuale dei privati, ma sorge il dubbio che in tal modo le si sia semplicemente riconosciuto il potere di sostituirsi alla fonte legale già di per sé impositiva dell’obbligo di un contegno dei contraenti ispirato alla buona fede, con la conseguenza puramente nominalistica di definire come ‘responsabilità contrattuale’ quella che, in mancanza di accordo espresso, sarebbe pura ‘responsabilità precontrattuale’ ex art. 1337 c.c.
Né può affermarsi con certezza che le conseguenze risarcitorie differiscano nelle due ipotesi, in quanto, benché la presenza di un accordo specifico potrà essere valutato dal giudice attraverso una quantificazione più severa del danno, la valutazione sarà comunque nella maggior parte dei casi di natura equitativa e nulla toglie che anche in applicazione dell’art. 1337 c.c., le ipotesi di particolari gravità vengano valutate dal giudice con altrettanto rigore.
Ebbene, posto che il vincolo contrattuale del p.d.p. viene legato alla presenza dell’obbligo a contrattare, le SS.UU. indicano altresì il criterio da seguire per valutare se nel caso concreto le parti si siano a ciò effettivamente obbligate. Tale criterio, oltre che diffusamente nella motivazione, viene espressamente dettato nella formulazione del principio di diritto, ove si legge: “Riterrà (il giudice) produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare”.
Quindi, l’elemento qualificante della figura contrattuale è dato dalla c.d. “formazione progressiva del contratto”, in mancanza del quale non potrà ritenersi sussistente alcun vincolo contrattuale, rappresentando essa quell’interesse degno di tutela che l’art. 1322 c.c. pone come elemento necessario nei contratti atipici e che le SS.UU. qualificano espressamente come la c.d. ‘causa concreta’ del negozio.
Si tratta di un criterio, però, che potrebbe apparire poco definito e non idoneo a garantire una uniforme applicazione del principio di diritto enunciato, giacché l’esistenza in concreto di una casistica estremamente variegata, comporta il rischio che venga attribuita valenza contrattuale ad accordi che contengono pochi e sparuti elementi e, magari, negata ad altri che hanno già raggiunto un certo grado di complessità.
Le stesse ipotesi riportate in sentenza che più frequentemente nella pratica danno vita ad accordi preliminari di questo genere, d’altronde, non sembrano sempre di aiuto. Infatti, sarebbero più propriamente estranee alla figura delineata dalle SS.UU., tutte quelle ipotesi nelle quali la conclusione del preliminare dipende da uno soltanto dei contraenti in virtù di accertamenti ancora da eseguire e che sono irrilevanti per l’altra parte (qualità dell’altro contraente, verifica dello stato della cosa e/o della sua situazione urbanistica), ovvero dipende da circostanze esterne alla volontà di entrambi i contraenti, esattamente come nel caso di specie ove la conclusione del preliminare dipendeva dall’assenso di una banca alla cancellazione dell’ipoteca iscritta sull’immobile da acquistare.
Nel primo caso, infatti, più che di un ‘obbligo a contrattare’ si potrà forse meglio parlare di un ‘obbligo di decidere’, figura molto più vicina all’opzione di preliminare ampiamente dibattuta in dottrina, che ad un c.d. ‘preliminare aperto’. Nel secondo caso, invece, così come le SS.UU. sembrano aver qualificato il caso di specie (V.si punto 7, 1° cpv., della sentenza), si potrebbe più propriamente parlare di “contratto preliminare completo, soltanto subordinato a condizione”.